Oggi non mi ha svegliata il solito
trillo della sveglia, ma un vortice potente di acqua e vento. Non è stato il
più bello dei risvegli. Amo le piogge di tardo autunno. Mi piace sentire il
battito audace dell’acqua sui vetri delle finestre e guardarla mentre dal cielo
cade fitta fitta. Mi piace l’odore della terra bagnata dopo il temporale e
sentirla su di me quando capito nel bel mezzo di un acquazzone estivo. Mi piace
anche perché, se non è fuori controllo, è un invito alla tenerezza, agli abbracci,
quelli caldi e avvolgenti davanti al fuocherello di un caminetto acceso. Al
contrario, il vento lo subisco. Lui ha il potere di trasformare la pioggia
battente in aghi di ghiaccio, di spezzare l’incanto e rendere tutto violento, tormentoso,
angosciante. Il vento è un limite alla mia forza di volontà. Lui frena i miei
passi, il mio poter essere, semplicemente così. Ma non ne ho paura – per quanto
possa farmi sentire enormemente fragile e vulnerabile. Anzi, il vento suscita il
mio senso di ribellione: mi costringe alla resistenza senza possibilità di
resa. È lui che accende quella fiamma interiore tanto vitale, da potersi
trasformare in un incendio. Nel vento appartengo al vento.
E mentre sono assorta nei miei pensieri, la vita fuori scorre e io con lei, persa nella solita routine da lavoratrice pendolare. Il mio sguardo segue la corsa fluida del tram che attraversa il cuore di una Cagliari desueta: bella come solo questa città sa essere. Arrivo presto al capolinea, ma ho deciso di non farmi ingoiare subito dalle fauci della stazione, dai suoi umori mutevoli, da certi rigurgiti senza speranza. Mi incammino, invece, verso il porto. Ancora piove, ma poco oramai. Ancora soffia il vento, ma, davanti al mare il suo rumore mi sembra un canto. E lo ascolto. Seduti su una panchina, non troppo distante dal punto in cui sono, due giovani litigano. Lui e Lei. Lui è vento, Lei pioggia e fugge via come l’acqua tra le insenature di un marciapiede. Lui impreca e tira un calcio ad una bottiglia di vetro abbandonata sul ciglio della strada, ma poi la rincorrere e, una volta afferrata, la stringe in un abbraccio. Lei non resiste, si lascia contenere come l’acqua dentro un bicchiere. Io non posso fare a meno di catturare quella scena in un fermo immagine che mi avvince. La guerra muore alla pace. Lui e Lei sono ora una goccia d’acqua trasportata dal vento, che si perde nell’incanto di un bacio. Dirotto lo sguardo, a seguire l’orizzonte. Dal mare lontano affiorano petali d’aurora che danzano tra la terra e il cielo. Acqua e Vento si perdono dentro un abbraccio. Nasce il mattino. E io non posso fare a meno di pensare che nella metamorfosi del mondo, ogni giorno tessiamo il ricamo di noi stessi e ogni notte lo disfiamo come Penelope. E, tuttavia, andiamo verso nuovi lidi come Odisseo.
Le strutture della scuola
nella quale insegno sono carenti e spesso disagiate. Non godiamo di una
biblioteca, di un’aula magna o di una sala conferenze. Appena si entra in uno
qualsiasi dei plessi di cui l’istituzione scolastica dispone, non si ha
l’impressione di varcare le soglie di un “austero” tempio del sapere,
ma di essere dentro un luogo in cui modernità e efficienza sono un eufemismo.
Nonostante tutto, inizio un progetto di didattica laboratoriale nell’ambito del
PCTO, il quale mi dà modo di conoscere le risorse umane di questa scuola ad
ampio raggio.Ho iniziato gli incontri in una delle sedi più disagiate (peraltro
condivisa con una scuola elementare dalla quale siamo separati da una porta
antisfondamento). Basti pensare che per usufruire del bagno ho dovuto
attraversare i due edifici, percorrendo due piani di scale solo perché il bagno
al piano terra era inagibile, causa presenza dei ratti. Ma non c’è di che
stupirsi. E forse proprio per questo la pubblica amministrazione se ne
infischia beatamente, nonostante le accorate proteste dei genitori e le
battaglie “donchisciottesce” del Dirigente Scolastico. Rifletto sul fatto che
le scuole, a tutti i livelli dell’istruzione, dovrebbero essere luoghi di apprendimento
funzionali allo sviluppo di persone “capaci”, ovvero di cittadini
attivamente impegnati nello sviluppo e nel miglioramento della società; o,
perlomeno, questo vorremmo che fossero i nostri studenti e le nostre
studentesse. Non posso, quindi, che provare un sentimento di indignazione,
soprattutto alla luce dei prossimi tagli “ridimensionamenti” (altro
eufemismo) che investiranno l’istruzione pubblica, pur essendo la scuola già in
un avanzato stato di esaurimento. Ho frenato a stento la mia parte ribelle, la
stessa che si accanisce contro le ingiustizia e che lotta per difendere i più
deboli, anche quando la posta in gioco è l’isolamento, la solitudine, il
disprezzo dei molti bugiardi megalomani travestiti da “Santi” e
salvatori della patria. Ho soffocato anche l’impulso di girare sui tacchi e
andarmene. Questo per non dare ragione a quanti vorrebbero vederci stesi al
tappeto, affermando di voler cambiare in “meglio” un sistema scolastico vecchio
bacucco, del quale, però, non hanno alcuna cognizione di causa. Soltanto ci
avvelenano con le loro pozioni magiche e, ormai sempre più spesso, incantano
con i loro giochetti ad effetti speciali. Dunque, Ho accettato la sfida,
mettendo in conto anche la possibilità del fallimento. Sono entrata in classe,
dove ad aspettarmi c’erano i veri protagonisti di questa storia: studenti e studentesse.
Loro che, nonostante i numerosi problemi, non perdono mai occasione per
regalarti un sorriso o una parola di ringraziamento. Loro che, dietro fatalismo
e rassegnazione, desiderano d’essere motivati ad apprendere. Glielo si legge
negli occhi, che brillano se capiscono il perché di ciò che si sta facendo. In
quel momento, mi è tornato in mente che in uno dei plessi della scuola c’è un
piccolo giardino nel quale fioriscono le mie rose preferite: alcune rosse,
alcune gialle, altre arancioni. Tutto mi è apparso chiaro. Ho chiuso la porta
dietro di me, dando inizio ai lavori, finalmente consapevole di non voler
essere in altro posto che lì, con le rose del mio giardino.
Con
oggi si conclude la mia esperienza biennale al Liceo De Castro di Oristano,
esperienza a suo modo unica e indimenticabile; grazie anche agli studenti, ai
colleghi, a tutte le figure professionali con le quali ho avuto modo di
collaborare. Si è trattato di anni speciali, seppur faticosi ed estenuanti,
prima di tutto perché hanno rappresentato il mio primo vero incarico da docente
di ruolo. Il 2015/2016, infatti, è stato l’anno fatidico della mia immissione
in ruolo, dopo quasi dieci anni di precariato. Il cosiddetto anno di prova più kafkiano che mai, essendomi ritrovata
nella condizione di insegnante senza classe né alunni: condizione, questa, a
dir poco destabilizzante, nella quale o perdi del tutto la motivazione o trovi
in te stesso la forza per ridisegnare il tuo profilo professionale e il tuo
ruolo all’interno della scuola. Personalmente, sono riuscita a trasformare un
tiro mancino in una grande occasione di crescita. Ciò mi ha permesso di
iniziare il mio nuovo anno scolastico con uno slancio e con una carica
impensate, nonostante la mia sede scolastica si trovasse a 100 Km da Cagliari,
dove vivo. Si è trattato di un percorso fatto di esperienze umane e
professionali non sempre in discesa e le cui difficoltà sono state amplificate
dal pendolarismo, ma che, nonostante tutto, mi hanno dato modo di esplorare e
affinare al meglio la componente emotiva di questa professione: ciò che c’è di
bello e puro quando nell’insegnamento scegli di adottare quell’approccio che io
amo definire della “razionalità affettiva”, anche nelle situazioni più
difficili e, apparentemente, grottesche o irrimediabili. Sì, perché quando
sceglie di gettarti dentro questa professione cuore, anima e corpo (con tutte
le sfide che questo comporta), è solo perché ci credi e vorresti dare il meglio
di te, seppur con tutti i limiti del caso. La posta in gioco non è il successo
professionale, l’avanzamento di carriera. La posta in gioco è il successo con
gli studenti, i quali per primi richiamano ad una grande responsabilità: prendersi
cura di loro in quanto persone uniche e irripetibili. Impegno assai arduo, che
esula in parte delle conoscenze che potrai trasmettere e dai contenuti che gli
studenti apprenderanno a loro volta, certe volte con successo, altre no. La
posta in gioco sono io stessa, come insegnante e come donna che vuole essere
padrona del proprio tempo e desidera stare bene in quell’hic et nunc che si consuma in classe, esattamente come un pesce sta
bene dentro l’acqua. Dal mio punto di vista, ogni attimo, ogni giorno dedicato,
ogni azione compiuta, ogni parola spesa, ogni persona incontrata, hanno
lasciato un segno indelebile; un colore più intenso in quel cammino lungo e
faticoso verso la consapevolezza di se stessi. Porterò nel cuore ciascuno degli
studenti che ho avuto il privilegio di incontrare. Ma soprattutto rimarrà
impressa nella memoria del mio cuore S, una studentessa che tra le lacrime mi
ha detto: «Prof., non ce l’ho fatta». S, che con il suo pianto sincero e
disarmante, mi ha fatto il dono di entrare nella regione sacra e inviolabile
dei sentimenti, regalandomi una preziosa verità: le persone sono meravigliose
proprio perché fallibili. Da un fallimento, infatti, ci si può sempre
riprendere e di nuovo ricominciare. Così come recita anche una canzone di Fabrizio
De André: «Dai diamanti non nasce nulla, dal letame nascono i fiori». S, non lo
sa, ma in quell’istante ha superato ha superato a pieni voti la sfida più
grande: non venir meno a se stessi, alla capacità, per niente scontata, del non
sottrarsi alla responsabilità delle proprie azioni. Allora grazie a S e a tutti
gli studenti dai quali ho imparato tanto. Li stringo tutti in abbraccio.
Sono le 6:00 del mattino: il momento del giorno che apprezzo di più; il momento del dialogo del “due- in- uno”. È l’ora in cui il sole sonnecchia ancora un pò, mentre preparo il caffè in languida penombra e lo offro all’altra me stessa. Cominciamo a chiacchierare, a fare il punto dell’anima, ad intrecciare nuove trame in questo telo immenso che è l’esistenza: avvenimenti che si affollano, situazioni irrisolte e paradossali, ricordi belli e ricordi brutti, esperienze, persone, stati d’animo. Nel silenzio di questo dialogo, complice me stessa, mi esercito nell’impresa più difficile al mondo: ascoltare e, nell’ascolto, attendere che la comprensione arrivi, imprevedibile come questi spruzzi di di luce che filtrano dalle fessure della finestra.
Se è vero che la comprensione è la sintesi di un lento, talvolta febbricitante, processo di riflessione; è altrettanto vero che essa invade la mente come una folgore, che scuote l’ordinato agglomerato di stanze di cui l’intelletto è garante e custode, afferra la ragione e la spinge verso orizzonti sconosciuti, meno tranquilli ma più confacenti alla sua inesauribile sete di assoluto. È un volo leggero senza le valige pesanti della logica: come un salto dura appena un istante. Ricado nel mosaico confuso della quotidianità, dove al centro una luce distesa acciuffo pensieri come dita allungate di una mano in controluce.